Dune: come acqua nel deserto

Per una strana ironia del fato, dopo aver sudato con Paul Atreides  per quasi tre ore nel percorrere le lande giallastre di Arrakis mentre tempeste di sabbia accarezzavano le aride dune che danno il nome al celebre pianeta, ho trovato ad attendermi un nubifragio di proporzioni immani. Tutta l’acqua tanto anelata nella pellicola aveva deciso di scendere fragorosamente costringendomi ad una corsa nell’acquazzone verso una macchina parcheggiata troppo in là. 

Eppure, anche se è passato più di qualche giorno, ho ancora la bocca arida e qualche granello di sabbia (all’aroma di Spezia) ancora sotto la lingua. Dune è un’opera monumentale che ti rimane dentro, non perfetta ma ispirata e realizzata con un’impronta autoriale tutt’altro che comune al giorno d’oggi quando parliamo di blockbuster. 

IL PASSO DEI FREMEN

Sulla storia è giusto dire poco. In un universo in cui si vive in una sorta di medioevo stellare con grandi casate pronte a rivaleggiare alle spalle di un imperatore timoroso di perdere il potere, la gestione del pianeta più importante passa dai terribili e poco capelluti Harkonnen ai nobili Atreides per volere imperiale. Tra questi ultimi, capeggiati dall’austero Duca Leto (Oscar Isaac perfetta scelta, per inciso) figura il protagonista della nostra storia: Paul Atreides. Fisicamente minuto, capelli al vento, sguardo curioso, l’eroe di Dune impersonato da Chalamet è un ragazzo che deve trovare il proprio posto del mondo. E finire nel mezzo di una colossale guerra tra intrighi, fughe, profezie e battaglie, tende ad aiutarti nel trovare la tua collocazione. O a ucciderti. 

L’universo immaginato dalla penna di Herbert è ricco e pregno di di sorprese. Come nel libro omonimo, il film non si dilunga in c.d. “spiegoni” volti a delucidare lo spettatore su ogni minimo particolare e sul perché accadono certe cose. Il mantra “show, don’t tell” è applicato alla perfezione nella pellicola. Sta a noi scovare, nella magnificenza visiva resa da Villeneuve, le risposte ad alcune domande. La storia si snoda in maniera atipica, con ritmi comunque tendenzialmente bassi ma a cui non siamo abituati. E non poteva essere altrimenti. E’ un film di attese, sguardi, panorami. L’azione c’è ma non è la regina indiscussa. Come i Fremen (i nativi di Dune) si destreggiano sulla sabbia con un passo volutamente irregolare (con lo scopo di non farsi scovare dai vermi giganti del deserto), così la pellicola accelera e rallenta, lasciandosi scivolare dolcemente sui pendii sabbiosi di dune che brillano in lontananza. 

“Come bucare lo schermo senza dire più di tre frasi”. Lezione a cura della Sig.ra Zendaya.

POTENZA VISIVA

Non è facile rendere su schermo l’epicità e la maestosità di quanto scritto da Herbert. La sua opera trasuda magniloquenza da ogni poro e, nella parte trasposta da questa pellicola, c’è una perenne sensazione di attesa e inquietudine. Il deserto è tradizionalmente considerato un ambiente ostile, privo di ciò che preserva la vita umana: l’acqua. A questo si aggiunge il calore che annebbia la mente, l’idea del miraggio che si intravede in lontananza e la profonda solitudine di un minuscolo essere umano che si trova in qualcosa di grande, di immane. Il signor Villeneuve è riuscito, con la sua solita eleganza e maestria, a prendere questi concetti ed elevarli al cinema. Non è un esercizio di stile fine a sé stesso quello di soffermarsi su campi larghi, sulle immense astronavi, sulla natura così diversa dal piovoso Caladan (pianeta degli Atreides) e dell’arido Arrakis. E’ tutto strumentale a regalarci quell’immaginario che Herbert aveva descritto nelle sue pagine. Il regista canadese, mio personale punto di riferimento attuale in ambito sci-fy, dimostra tutta la sua bravura nel rendere elegante un blockbuster senza finire per essere ampolloso o autoreferenziale. Come Jackson ai tempi del Signore degli Anelli, si nota il profondo affetto verso l’opera originaria dalla quale attinge a piene mani (con una fedeltà quasi totale, seppur con dei tagli per alcune sottotrame onde evitare 5 ore di film). 

Non c’è niente da fare: anche stavolta Oscar Isaac vuole fare il pilota e finisce nel deserto.

CASA ATREIDES, CASA HAROKENNEN E … CASA ZIMMER

La squadra di attori convocata per questo primo capitolo di Dune è di altissimo livello. Oltre ai citati Isaac e Chalamet, ricordiamo Zendaya (che pur dicendo tre parole in croce buca lo schermo), Rebecca Ferguson (nei panni della potente e ansiosa lady Jessica) senza dimenticare i due Harkonnen Skarsgard e Bautista. Da segnalare anche Bardem, Momoa e Brolin perfettamente calati nella parte e somiglianti alle controparti letterarie.

Ma se le due casate Atreides e Harkonnen hanno avuto il loro spazio, non possiamo negarlo alla terza casata, quella che domina le note della pellicola: Zimmer. La sua musica contribuisce a creare quel sapore esotico, suggestivo e mistico in un connubio perfetto con le immagini a schermo di Villeneuve (con una fotografia fenomenale a firma di Fraser).

Muad’dib si nasce o si diventa?

Dune non è un film esente dai difetti. Paga l’essere il primo capitolo di una saga, con un finale cliffhanger che lascia molto in sospeso. E paga il suo ritmo particolare che, seppur ammaliante e personalmente affascinante, potrebbe non essere adatto a tutti i palati. 

Ma lasciatemi dire che di blockbuster realizzati con tale maestria, passione e cuore ne avevamo davvero bisogno.

Come acqua nel deserto. 

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