La vogata di un re

Odiava arrivare in ritardo. Mentre si faceva largo nelle strette vie della periferia di Iolco tra una spallata e ed uno spintone, già si immaginava le occhiate di disprezzo di tutti gli altri. Era una questione di principio. “Mai dare agli altri l’opportunità di criticarti” ripeteva come un mantra ad Odisseo mentre si allenavano a colpi di lancia e scudo. “Laerte il solerte” questo era il suo soprannome. Sempre il primo ad arrivare, che fosse su un campo di battaglia o ad una cerimonia sacra. Ora, in quella che sarebbe stata la più grande avventura della sua vita, si trovava  già a dover correre per non perdere la nave. Non era comunque colpa sua se aveva trovato cattivo tempo per mare. Come ogni volta aveva pianificato tutto alla perfezione, tenendo conto di ogni possibile imprevisto che sarebbe potuto capitare. Eppure, che il viaggio non sarebbe stato facile avrebbe dovuto intuirlo già a Itaca. Aveva deciso di partire la mattina presto, quando ancora i galli del giovane Eumeo non avevano iniziato a salutare l’alba rosa del nuovo giorno. In silenzio aveva raccolto la sua armatura, il suo scudo e la sua lancia dopo un breve bacio ad Anticlea (già sveglia e apprensiva come suo solito) ed era corso giù al porto dove i suoi migliori marinai lo aspettavano tra uno sbadiglio e l’altro. Se, giunto sottocoperta, non fosse scivolato mentre posava il suo pesante bagaglio si sarebbe accorto del “clandestino” solo una volta giunto in mare aperto. Grazie agli dei si era trovato proprio a pochi palmi dalle gambe di un ragazzino che conosceva fin troppo bene. “Per Atena, che diamine ci fai qui?” era stato tutto quello che era riuscito a biascicare mentre si rialzava dolorante. Odisseo aveva evitato il suo sguardo, accartocciato in un angolo della stiva. “Rispondimi!” aveva insistito il re. “Voglio venire con voi padre! Non lasciatemi qua!” Laerte aveva sospirato: “Stammi bene a sentire: verrà il tuo momento ma non oggi. Tua madre ha bisogno di te, Itaca deve sempre avere uno della nostra stirpe a palazzo, chiaro?” Il bambino piangeva. Laerte odiava quei momenti. Lo aveva preso di forza mettendoselo sulle spalle e aveva attraversato tutto il ponte (lanciando occhiatacce ai marinai, che avrebbero dovuto fare la guardia alla nave). Poi, incaricati due soldati di accompagnare la piccola peste a palazzo, aveva finalmente dato l’ordine di partire.

Un puzzo di pesce lo riportò al presente, mentre in lontananza cominciava ad intravedere un gran numero di guardie. Doveva essere vicino alla zona nord del porto. L’araldo aveva annunciato che la nave sarebbe stata ormeggiata nel punto più settentrionale dell’ampio golfo che si faceva spazio all’orizzonte. Le piccole capanne di pescatori avevano lasciato spazio ad un grande palco. Pelia aveva fatto le cose in grande, questo era indubbio. Laerte sorrise: quel gran bastardo voleva il suo spettacolo e lo aveva avuto: dare una missione suicida al vero erede al trono e salutarlo con gioia mentre andava incontro a morte certa.  Non aveva però previsto che questi sarebbe riuscito a radunare quella marea di guerrieri che Laerte si trovò davanti. Alcuni già in armatura con i cimieri svolazzanti sugli elmi, altri in comode toghe circondati dai loro aiutanti, gli eroi di tutta la Grecia erano lì. Fortunatamente la partenza non era ancora avvenuta, tirò un sospiro di sollievo. Laerte cercò invano qualche viso amico, sentendosi tremendamente fuori posto. Un sovrano provinciale insieme al fior fiore dei combattenti più famosi al mondo. Strinse la lancia con la mano destra e si mise alla ricerca di Giasone. Alla destra del palco, dalla ressa attorno, intuì che qualcuno di molto importante stesse parlando. Si avvicinò e scorse un fisico scultoreo che non poteva certo essere quello di Giasone. No, quella massa di muscoli custodita da una veste di pelle leonina apparteneva a qualcun altro. Eracle stava dilettando gli astanti raccontando una delle sue mille imprese. Se non altro avrebbero un semidio a darci una mano, pensò il re di Itaca mentre si allontanava dopo l’ennesimo applauso ad una battuta di dubbio gusto dell’eroe. Pochi passi e si imbatte’ in un concerto improvvisato di Orfeo che con la sua lira stava decantando le virtù degli abitanti di Iolco. Evidentemente aveva molta fantasia per poter scovare qualche qualità in uno dei popoli più antipatici dell’Ellade. Se avessero fallito poteva almeno sperare in una carriera al soldo di Pelia, mica scemo il bardo. Era ancora immerso in questi pensieri quando qualcuno lo chiamò da lontano. Laerte strinse gli occhi e riconobbe la figura di Nauplio. Si erano visti anni addietro in una guerra nei pressi della sua Eubea. Un tipo in gamba, anche se non molto divertente, a dirla tutta. Era accompagnato da un uomo dalla pelle arsa dal sole. “Laerte di Itaca! Anche tu tra i nostri! E’ un piacere rivederti!” gridò avvicinandosi. “Piacere mio, Nauplio. Come sta il piccolo erede?” “Palamede? Come al solito fa un sacco di domande, è sveglio il ragazzo. Il tuo?” “Spero che Odisseo diverrà un buon re ma è testardo più del padre”. Nauplio si mise a ridere. “Signore di Itaca, Ti presento Tifi, il nostro timoniere. Non esiste pilota migliore in tutta la Grecia!” “Ne ho sentito parlare, saremo dei marinai all’altezza della tua fama?” “Non ne dubito” disse Tifi sorridendo scoprendo un sorriso composto da pochi denti scheggiati. Nauplio si offrì di accompagnare Laerte alla nave non smettendo un attimo di parlare. Solitamente era una persona silenziosa ma l’eccitazione della partenza aveva contagiato anche lui. Mentre si dirigevano verso il molo incrociarono Teseo che stava mimando al possente Telamone le mosse del minotauro tenendo gli indici accanto alla testa a mo di corna. Mentre si stagliava all’orizzonte la sagoma longilinea di una grande imbarcazione venne incontro loro Admeto che si limitò a dire: “E’ una follia, se non altro moriremo giovani” scoppiando in una risata e andandosene verso la zona vini allestita per l’occasione non lontano dal palco. Laerte sospirò, erano stati proprio raggruppati uomini di ogni tipo, compresi i più strambi come Admeto, re di Fare. Era ancora immerso nei suoi pensieri quando si trovò a pochi metri dal gigantesco occhio che adornava la prua della nave bianca. L’iride maestoso lo scrutava impassibile mentre si sollevava e scendeva a seconda del piccolo moto ondoso del porto. Rimase senza parole. Nauplio gli sorrideva accanto, in silenzio. Ad interrompere quella contemplazione ci pensò un tipo smilzo vestito di nero: “Avessi avuto un gioiello del genere, chissà quali imprese avrei potuto compiere!”. I lunghi capelli corvini nascondevano un viso che vedeva una cicatrice biancastra scolpita sulla guancia sinistra. “Laerte, re di Itaca, giusto? Ho fatto scalo dalle tue parti in una delle mie varie..ehm..avventure” Sogghignò. “Peleo! Ti ci vorrebbe una donna ad attenderti al focolare, forse solo un bel viso potrebbe fermarti un attimo.” “E chi mi sopporterebbe? Solo una dea o una ninfa”. Allargò le braccia. “Per ora mi accontento di godermi la vita! Guarda questa bellezza, è o non è la più bella nave al mondo? ”Peleo aveva ragione. Ne aveva viste, di navi, nella sua vita ma nessuna era come quella. Sembrava ricavata da un unico tronco con una forma affusolata, quasi a sembrare una punta di una lancia. L’albero svettava al centro puntando dritto verso il cielo spoglio di nuvole. “Argo. In onore del suo costruttore.” Nauplio aggiunse. “La domatrice di onde”. Laerte sarebbe potuto restare ad ammirare quel gioiello di legno per ore se non avesse sentito il suono di un tamburo.

Giasone stava chiamando tutti a raccolta. Il giovane guerriero era sul palco, con i capelli castani al vento ed una fascia rossa sulla fronte. Alle sue spalle un furente Pelia fulminava con lo sguardo la massa di uomini che si stava aggregando ai piedi della impalcatura di legno. “Non possiamo attendere oltre, la gloria ci attende!” Un’ovazione eruttò dalla folla mentre in aria venivano sollevate lance e spade. “Riporteremo il Vello d’Oro a Tebe, così come richiesto da Pelia fratello di Neleo!” Laerte notò come Giasone avesse volutamente omesso il titolo di re e fatto riferimento al padre Neleo. Ed era stato anche troppo cortese con un pezzo di sterco come l’usurpatore Pelia. Fosse accaduto nella sua Itaca avrebbe massacrato gente come lui impalandola con frecce acuminate lungo le mura del palazzo reale.

Si perse così nei suoi pensieri mentre Giasone proseguiva nella sua arringa. Senza quasi rendersene conto, si ritrovò al suo remo poco dopo, pronto a vogare per lasciare il molo e partire per l’impresa. Pensò ad Anticlea che lo aspettava a casa  ed al suo piccolo Odisseo che non stava fermo un attimo. Come sarebbero stati senza di lui? Gli sarebbe mancato? Sentì una morsa alle viscere, come se Scilla e Cariddi avessero deciso di cibarsi con le sue interiora. No, non vi era tempo per rimorsi e ripensamenti. Aveva avuto una vita tranquilla, forse troppo. Era ora di salpare verso la leggenda, anche per uno come lui in mezzo a tanti più blasonati eroi. Fece forza sulle gambe, strinse le mani attorno all’impugnatura del remo e, al primo suono di tamburo, si spinse leggermente indietro e tirò il remo verso il petto. Poteva sentire la pala fendere l’acqua, scavando un solco subacqueo nel mare calmo, azzurro come il cielo di Itaca d’estate. Mentre iniziava la seconda vogata si trovò a sorridere: niente calcoli, stavolta solo il grande mare, lo sciabordio delle acque, il soffio dei venti dal sapore di sale.

Addio a Laerte il solerte. Ora toccava a Laerte…l’Argonauta. 

Un pensiero riguardo “La vogata di un re

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.